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Gio 20/2 ore 20.30
Ven 20/2 ore 20.30

Un film di Davide Manuli. Con Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Elisa Sednaoui, Fabrizio Gifuni, Marco Lampis.
Drammatico, durata 95 min. – Italia 2012.
“Manuli trasforma l’enigma di Kaspar Hauser in leggenda esaltandone in chiave post-moderna gli elementi archetipici e metaforici”
Il lunedì di Pentecoste del 26 maggio del 1828, tra le quattro e le cinque di sera, un ragazzo malfermo e malvestito apparve nei pressi di Norimberga. Ripeteva poche parole e reagiva scompostamente alle sollecitazioni sensoriali. Aveva con sé una lettera indirizzata a un capitano di cavalleria del VI reggimento dei cavalieri di Norimberga.
Il ragazzo non sapeva e non diceva nulla di sé. Delle cinquanta parole di cui era composto il suo lessico, alcune ritornavano ossessivamente: Reuta worn e Woas nit, espressioni dialettali che significano “diventare cavalleggero” e “non so”. Quando gli diedero una penna, l’unica cosa che scrisse, e che sapeva scrivere, era il suo nome: Kaspar Hauser.
Fu preso sin da subito per un impostore e un furbo. Per questo venne rinchiuso nel carcere di Norimberga, dove divenne una sorta di curiosità cittadina. Tra i curiosi, vi fu il barone von Feuerbach, l’unico che prestò autentica attenzione al fenomeno del giovane selvatico. Scrisse un libro che fondò la leggenda di Kaspar Hauser. Il ragazzo seppur selvatico e analfabeta sembrava avere doti naturali e un carattere nobile. Il barone avanzò la tesi che il giovane fosse il figlio di una nobile famiglia fatto sparire in tenera età per escluderlo dall’asse ereditario.
Grazie all’intercessione di von Feuerbach, Kaspar Hauser fu indirizzato a un tutore che gli insegnò a leggere e scrivere. Fu così che si apprese, per penna dello stesso Hauser, la sua storia che lo vede segregato per anni sotto terra, al buio, senza mai vedere essere umano, unici compagni due cavallucci e un cane di legno. Poco prima di trovare la libertà, uno sconosciuto a lui mai rivelatosi gli insegnò a scrivere il suo nome.
Kaspar Hauser, a riprova della sua versione, soffriva la luce del sole, non riusciva a ingerire altro che pane e acqua, rigettando anche il latte. Il suo scritto impensierì qualcuno e Kaspar Hauser venne prima colpito con una scure e qualche tempo dopo fu assassinato. Non si trovò mai il colpevole.
La storia di Kaspar Hauser, il cosiddetto bambino d’Europa, è stata raccontata, discussa, analizzata, interpretata da una miriade di scritti (3 mila libri e 14 mila articoli), decine di rappresentazioni teatrali e diversi film, di cui il più famoso, L’enigma di Kaspar Hauser, porta la firma di Werner Herzog. A questi ora si aggiunge la riscrittura cinematografica di Davide Manuli, regista e artista milanese indipendente, già autore del sorprendente Beket a cui quest’ultima prova si lega indissolubilmente a formare un dittico tanto originale quanto potente.
Davide Manuli, ispirandosi vagamente all’interpretazione in chiave di sacrificio cristiano proposta da Rudolf Steiner, trasforma liberamente l’enigma di Kaspar Hauser in leggenda esaltandone in chiave post-moderna gli elementi archetipici e metaforici.
Tornando sui luoghi del suo immaginario cinematografico, senza tempo e senza luogo, già proposta in Beket Manuli trasforma Hauser in una sorta di post-ragazzo selvatico piombato sulla Terra come fosse il pianeta X, abitato da sparuti esseri che sembrano dei “tipi cinematografici” sopravvissuti a un’apocalisse culturale, resistenze cine-antropologiche, acchittati come personaggi sfuggiti alla macchina del tempo. C’è lo Sceriffo (Vincent Gallo) dal forte accento texano, con cappello, cinturone, casco e ray -ban, metà cow-boy metà easy rider, metà carceriere metà tutore. Alleva Kaspar a pane e acqua e lo alfabetizza a suon di tecno music facendo del ragazzo selvaggio un dj da Frontiera.
C’è il Pusher (ancora Vincent Gallo), un cavaliere di bianco vestito, elettrico e lucente, vistoso nei suoi eccentrici occhiali da sole, concupito dalla duchessa regina, poco amato dalla cortigiana sgualdrina, sfidato in un duello tecno-dance dallo Sceriffo, suo cliente intossicato.
C’è il Prete (Fabrizio Gifuni) che sembra frate Tuc, con saio e pistola, dal dialetto pugliese, più bandito che religioso, diffida di Hauser e del suo portato messianico, lo crede un impostore alla ricerca di un tesoro sull’isola che non c’è. E poi la Granduchessa (Claudia Gerini), sguaiata regina in nero, regnante a vuoto di un regno remoto e svuotato, astratto e sospeso (una Sardegna traslitterata, abbacinante, sovraesposta, landa western da dopo-bomba). Poi c’è la Veggente (Elisa Sednaoui), un po’ prostituta un po’ amante, e il Drago (Marco Lampis).
A muoverli tutti, Hauser (Silvia Calderoni), il più felice tra le reinvenzioni del “mito”. Viene dal mare, è androgino e biondo, indossa sempre delle cuffie da dj. Potrebbe essere un sopravvissuto alla deriva di un rave party, un performer che si è staccato improvvisamente dalla sua opera d’arte, costretto chissà da quale incantesimo, a ripetere ad libitum il suo gesto artistico, convulsa espressione di una body art fraintesa. Il Kaspar Hauser di Manuli promuove se stesso come un fool ascetico, un oracolo rotto che ripete sempre le stesse parole, “Io sono Kaspar Hauser”, come fossero la base per una base dance. La leggenda di Kaspar Hauser è una sorta di UFO sui cieli sparuti dei cinema italiani quasi estivi. È un film sorprendente, frutto di una visione eccentrica e originale, molto organica e piuttosto compatta. Un’estetica composta da una serie di piani sequenza di dimensione variabile, corredati da un impianto musicale (la colonna sonora è firmata da Vitalic) finalmente non più solo ornamentale, ma necessitato, un personaggio tra gli altri, astratto come gli altri.
Non meno alieno, per il cinema italiano, è la composizione del casting del film che riunisce attori di esperienze e retaggi diversi, a partire da Silvia Calderoni, corpo iconico della scena del teatro di ricerca italiano, premio Ubu, già attrice feticcio dei Motus, prima ancora del Teatro Valdoca. Manuli la affianca a una star del cinema indie-americano, Vincent Gallo, attore e regista, personaggio tra i più eccentrici e appartati, da taluni discusso per le sue idee radicali, capace di volare da Abel Ferrara a Emir Kusturica. Manuli poi ricorre alla sicura arte di Fabrizio Gifuni, attore eclettico di teatro cinema e televisione, già in BBeket mentre osa scegliendo Claudia Gerini, attrice del cinema italiano, molto coraggiosa nel mettersi alla prova.
Dario Zonta – mymovies
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