Gio 5/11 ore 20.30
Ven 6/11 ore 20.30
Cineforum, ingresso anche con biglietto.
Un film di Andrei Zvyagintsev. Con Aleksey Serebryakov, Elena Lyadova, Vladimir Vdovichenkov, Roman Madyanov, Anna Ukolova.
Drammatico, durata 140 min. – Russia 2014.
“Un capolavoro del genere capolavoro.”
Leviathan presenta una struttura circolare talmente forte da suscitare il turbinio delle scure acque che risveglia; inizia con il mare che infrange le sue onde sulle scogliere, sulle spiagge, sulla terra desolata, scruta il silenzio mentre si allontana dalle rocce, ed infine smuove nuovamente la sua rabbia.
L’ambiente nordico, ampie distese di una natura che sembra covare il segreto della propria esistenza, incede con passo lento verso lo squallore; il mare è un ignoto abisso in cui a volte il nostro sguardo si smarrisce, sopraffatto dalla conclusione delle nostre attese, inghiottito dalla visione dell’ineluttabile: da quella macchia cupa e penetrante emerge la belva, destinata anch’essa al rigurgito feroce delle acque, che ne scaveranno le ossa, risputandone lo scheletro, come monito, come ricordo, come orma destinata ad essere coperta dalla polvere di un tempo passato.
Ciò che resta della balena, ciò che resta delle barche incagliate nel fango, è la traccia del nulla del mondo.
Allo stesso modo, dall’alto del piedistallo della Storia, statue di antiche guide si ergono a giudici, indicando per vie sotterranee una continuità con il presente che genera vortici inebrianti ma destinati a fossilizzarsi, immagini del potere e del dominio che finiscono a bersaglio dei fucili di un branco d’animali ubriachi d’impotenza.
In un isolamento cercato, lontano dal rumore, la vodka scorre allora senza sosta, ennesimo liquido denso e melmoso che addormenta i corpi e le menti, ottunde le facoltà percettive, s’insinua nelle coscienze e, senza eccitarle, le trascina in uno stato di continuo, sonnolento, abbandono.
Le figure umane appaiono pesanti nei loro passi indolenti, incapaci di procedere.
L’alcol si riversa nella vita di ognuno, coprendola di noia, come una cosa morta, viscida, reietta.
E se la vodka circola di notte, vicino al fuoco, tra i naufraghi che contemplano il proprio presente e il proprio avvenire, tramuta il desiderio di contatto umano nella terribile visione della propria solitudine; è lì che ci si rende conto di quello che si è perduto e di quanto se ne sente la mancanza.
Kolja allora, dopo l’ennesimo sorso dalla bottiglia, guarda in alto, attraverso il vecchio campanile della chiesa diroccata che, come in Nostalghia (Andrej Tarkovskij, Italia 1983), diviene un precario ma vivo conforto; dal fuoco, i suoi occhi guardano le faville salire verso l’alto.
Nell’altra chiesa, rutilante di superbia, il bacio del politico al figlio rivela la forma dell’idolo che il bambino dovrà imparare a temere, sacrificare ed infine blandire; anch’egli alza il proprio sguardo, fermandolo sul soffitto della chiesa, ma mentre la voce bardata di demagogia ingrassa il bene e il male come ataviche parole di un maestro severo, ciò che ritorna nei suoi occhi è la prigione che lo rinchiude. Cristo compare a fissarlo, «vede tutto quello che facciamo», ma non è che una falsa proposizione dell’apparenza con la quale si vuole onorare una figura di rispettabilità, provenga essa da fiabe o da realtà.
L’immagine del Leviatano, mostro biblico dell’Apocalisse, prende forma concreta quando la ruspa distrugge la casa di Kolja: quell’essere meccanico, freddo e implacabile, riversa le sue fauci sulla dimora dell’uomo, divorandone l’esistenza.
Ma, in termini astratti, l’orribile bestia è incarnazione del potere, cancro che si diffonde con neri tentacoli tra i palazzi del giudizio umano, corrodendo tutte quelle vite assetate di giustizia, terrena o divina, mentre esse non fanno che dissimularla nell’eterno circolo della loro rapacità.
L’innocente saprà dimostrare, ai loro occhi, solo la propria colpa.