Passeri

Mer 5/4 ore 20.30
Gio 6/7 ore 20.30
Ven 7/4 ore 20.30
Cineforum, ingresso anche con biglietto.

Regia di Rúnar Rúnarsson. Con Atli Oskar Fjalarsson, Ingvar Eggert Sigurðsson, Rakel Björk Björnsdóttir, Kristbjörg Kjeld.
Drammatico – Islanda, Danimarca, Croazia, 2015, durata 99 minuti.

“Un attore rivelazione e un paesaggio meraviglioso e terribile, per un coming of age che trova la propria identità nel momento dell’affondo più duro.”

Il sedicenne Ari deve lasciare Reykjavik contro il proprio volere perché la madre è in partenza per l’Africa con il nuovo compagno. Tornerà a vivere col padre, nel paesino al Nord Ovest dove è cresciuto e dove c’è poca differenza tra il giorno e la notte, ma in compenso ce n’è molta rispetto alla città. Qui, però, Ari fatica a trovare un motivo di gioia: il padre non sa uscire da una spirale alcolica e vittimista e, fatta eccezione per una vecchia amica d’infanzia, il ragazzo non ha amici né affetti.
Al vuoto degli spazi aperti, al dominio della natura, corrisponde un vuoto interiore, difficile da saziare, e un freddo sentimentale, che in molti combattono con l’alcol e l’oblio temporaneo che esso assicura. Su questo mondo si affaccia il protagonista, Ari, preso in un’età in cui non è nemmeno lontanamente artefice del proprio destino, per quanto gli sarà poi permesso; forte come “una bambina di sei anni”; pulsante di desiderio e incapace di incanalarlo secondo il suo volere. Ari è un passerotto, che ancora cerca il vecchio nido per trovare conforto, ma che, come i passeri, si ritrova a raccogliere le briciole, anche e più che mai nella notte più importante della sua adolescenza, quando l’amore si tramuta in un corpo come morto e in un pasto altrui.
Quasi dieci anni dopo aver preso parte al cortometraggio Two birds, il giovane Atli Óskar Fjalarsson torna a farsi dirigere da Rúnar Rúnarsson, qui alla sua opera seconda, e insieme i due allestiscono un poema visivo fatto di piani frontali, sonoro d’ambiente, lunghe sequenze in tempo reale. Non c’è musica, nel film, se non quella del canto di Ari, che segna tre momenti fondamentali, e riassume in una perfetta, spiazzante sonorità quello che la parola non arriva a dire: la grazia e il dolore, la dolcezza della parte ancora bambina e l’autocontrollo di quella adulta.
La performance di Atli Óskar Fjalarsson è superba, in grado di far passare un’intera esperienza di vita da un rossore sulle guance o la paura più buia da uno sguardo senza sorriso. Gli specchi, che spesso contengono e rimandano la sua immagine, raccontano un senso di estraneità a sé stessi, di dislocazione tra il corpo e l’animo.
Nulla sembra accadere, se non dell’ordine di un incontro fortuito, un piccolo riavvicinamento, una delusione che riscrive le già tiepide speranze di cambiamento, poi, nel suo ultimo terzo, il film affonda la lama. Senza tradire il sentimento linguistico che lo ha permeato fino a quel momento, che potremmo dire un realismo poetico, Rúnarsson fa scontrare violentemente ma silenziosamente questi due termini, in una scena che assomma la bellezza e l’orrore. È di fronte a ciò che il personaggio di Ari si assume una responsabilità, seppure tardiva, e diventa adulto. Prima, Passeri aveva camminato sul confine del genere, facendo passare il coming of age dalle prime esperienze sessuali, da un lutto, da un caffè, percorrendo strade già battute, ma è nell’ultimo, duro affondo, che il film trova se stesso. (mymovies)