Re Granchio

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Gio 9/12 ore 20.30
Ven 10/12 ore 20.30
Sab 11/12 ore 20.30
Dom 12/12 ore 20.30
Lun 13/12 ore 20.30

Mer 15/12 ore 20.30

Un film di Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis. Con Gabriele Silli, Maria Alexandra Lungu, Jorge Prado, Dario Levy, Mariano Arce.
Drammatico, durata 90 min. – Italia, Francia, Argentina 2021.

“Un’investigazione filosofica inquadrata come un dipinto d’epoca. I protagonisti pulsano di una passione senza tempo.”

Luciano è il figlio del medico locale di un borgo della Tuscia tardo ottocentesca: un’anima persa, un ubriacone che si trascina attraverso il villaggio e le campagne con grande scandalo per la comunità. Ma Luciano guarda in alto, e ama una contadina promessa ad un principe: lo stesso che taglieggia la comunità, e contro cui Luciano intende ribellarsi in nome di una giustizia di principio. Le cose non andranno come crede, e l’uomo si troverà a vagare dall’altra parte del mondo in cerca di un tesoro leggendario inseguito da molti, convinti che l’oro nascosto cambierà la loro vita. Quella vita in cui le cose importanti invece, a ben guardare, sono altre.
Alessio Rigo de Righi (di per sé un cognome da epopea) e Matteo Zoppis, entrambi classe 1986, esordiscono alla regia e sceneggiatura di Re Granchio.
Un film che nella versione internazionale è intitolato The Legend of King Crab ad evocare La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi e che aveva per protagonista un uomo intento a ribadire la sua estraneità alle cose del mondo alzando il gomito.
Anche in Re Granchio ogni inquadratura è un quadro, ogni sequenza la tappa di una via Crucis lungo un percorso di pentimento e redenzione, narrato a metà fra il racconto del cantastorie e l’elegia pastorale. Di Olmi i due registi hanno la profondità spirituale e il gusto pittorico che attinge ai maestri dell’arte figurativa europea (molto Caravaggio, fra gli altri) usando la luce (il direttore della fotografia è Simone D’Arcangelo) come va usata al cinema: ovvero in modo totalmente consapevole delle sue potenzialità drammaturgiche.
Ma Rigo de Righi e Zoppis hanno anche la visionarietà (e la sensibilità contemporanea) del Lisandro Alonso di Jauja di cui riproducono la vertigine spaziotemporale, quella sospensione sul baratro di un passato che coesiste con la modernità, giacché la leggenda di Luciano viene rievocata dagli abitanti attuali del borgo, in fondo anche loro incastrati nella Storia.
E non è un caso che Luciano si sposti verso la Terra del Fuoco e che i due registi italiani abbiano uno stretto rapporto con l’Argentina, con cui hanno coprodotto i loro precedenti corti Belva nera e Solengo.
l peregrinare esistenziale di Luciano ha una forte risonanza contemporanea: è una ricerca di senso e un tentativo di sfuggire ad un habitat che non ci appartiene (più) e che ci chiama ad un confronto materico con la natura, umana quanto ambientale. Re Granchio è “un’investigazione filosofica sull’origine e la posizione dell’uomo nell’universo”, come ha scritto Ilaria Gianni a proposito dell’opera di Gabriele Silli, l’artista contemporaneo che interpreta il ruolo del protagonista e che fa della materia organica la sua poetica scultorea.
Intorno a lui bellezza e desolazione, anelito e disincanto hanno lo stesso impatto, e i registi ce lo restituiscono incastonando le figure umane in panorami incantevoli e alieni. Ogni cosa è tangibile, tridimensionale, ogni colore denso e disposto all’affondo della cinepresa. Ancora parafrasando le parole di Ilaria Gianni nel descrivere le opere di Silli, Re Granchio è un film “sfrontato, intenzionato a rivelarsi nella sua natura fisica, corporea, piuttosto che narrativa”, “un viaggio sensoriale nell’extra-ordinario, a lasciarsi trasportare dalla potenza del ‘mero’ elemento fisico, tattile, grottesco”.
L’unica osservazione negativa, in un film così accurato e preciso, è la colorazione dialettale di alcuni attori, che a tratti abbandonano l’accento toscano per altre sonorità regionali. Ma Silli e Maria Alexandra Lungu (il cui volto antico e misterioso avevamo già apprezzato ne Le meraviglie) restano presenze intense e memorabili, inquadrate (è il caso di dirlo) come dipinti d’epoca, ma capaci di pulsare di passione senza tempo, di desiderio senza argine possibile.